La Culata
Non fraintendete, la culata non è come apparentemente potrebbe sembrare una parolaccia, ma indicava l’operazione per rendere candita e profumata la biancheria di casa.
Un tempo non bastava una sola persona per lavare i panni, servivano le forze di tutte le donne di casa. E non bastava un solo giorno per completare il lavaggio, ne servivano addirittura due.
Era un’operazione talmente lunga e faticosa perché le famiglie erano molto più numerose di oggi e si svolgeva in genere solo una volta al mese.
La giornata iniziava presto, bisognava raccogliere l’acqua dal pozzo di casa, facendo scendere e risalire numerose volte il secchio collegato ad una carrucola. Dopo aver riempito le “bagnarole” e le “scafaree”, bisognava portarle dentro casa, dove l’acqua veniva rovesciata in grandi pentole e messa sul fuoco del focolare, preparato di prima mattina con i ceppi di legno recuperati in buona parte sulla spiaggia. Quando bolliva, si aggiungeva la cenere, quella buona, quella recuperata la sera prima dal forno di Mariannina, generata dalla combustione di fascine, “pinicilli” e legna di primo taglio. Si otteneva, così, il “detersivo” chiamato liscivia: un liquido grigiastro che aveva un grande potere pulente e sbiancante.
Se i panni erano tanto sporchi, si iniziava con un “prelavaggio”: i capi venivano sfregati energicamente con una spazzola di saggina e con il sapone di Marsiglia. Una grande fatica.
Dopodiché, entrava in scena l’antenato delle moderne lavatrici: un grosso vaso di terracotta con un buco sul fondo, chiamato “cufunaturo” sospeso su un treppiedi. Sotto, in corrispondenza del foro (che si poteva aprire e chiudere), si metteva un secchio che raccoglieva l’acqua di scolo.
Le fasi del lavaggio erano queste:
I panni venivano messi nel “cufunaturo” e venivano coperti con uno spesso telo , chiamato “cennerale” che serviva da filtro per evitare il contatto diretto con la cenere.
Sopra il cennerale si rovesciava, a poco a poco, la liscivia con foglie di lauro e di limone. Il liquido, filtrato dal tessuto, bagnava il bucato e poi finiva dentro il secchio posto sotto il cufunaturo. Si continuava così fino a quando l’acqua di scolo non era trasparente e la soda caustica, contenuta nella cenere aveva sbiancato tutta la biancheria.
Poi si appoggiavano degli assi di legno sull’apertura del cufunaturo , così l’acqua rimaneva calda, e i panni venivano lasciati in ammollo per una notte intera.
Il giorno dopo le fatiche non erano finite, anzi si doveva sfregare bene il bucato con il sapone e con la spazzola e poi sciacquare il bucato. I tessuti si sbattevano con forza sul lavatoio di cemento, esistente in ogni casa, per eliminare la cenere e il sapone, e poi si strizzavano bene. Bisognava fare, quello che fanno le centrifughe moderne. Così con pochi ma laboriosi gesti e senza inquinare, si otteneva un pulito insuperabile ed una freschezza senza pari, con l’aggiunta di un ottimo odore dovuto all’aggiunta delle essenze naturali. Poi, nel cortile di casa e sui tetti si stendevano i panni al sole ed una volta asciutti, si stiravano energicamente a mano. Da qui deriva il detto napoletano: “facesse na culata e ascesse ‘o sole”. Tradotto con “ facessi il bucato ed uscisse il sole”, per indicare, il dispiacere che provavano le massaie dopo aver fatto tanta fatica a preparare il bucato nel ritrovarsi con condizioni atmosferiche ostili. La giornata del bucato era finita e la sera era tutta un’attesa, si cambiavano le lenzuola e l’odore inebriava il cuore ed era un tutt’altro il dormire. Fortunato chi lo ha vissuto. E noi lo abbiamo vissuto.